Thursday, May 3, 2018

Poche note sull'improvvisazione italiana: sulla rarità tecnica ed espressiva

Jack D'Amico | awaiting the great collapse PLUS TIMBRE 033 (2016)
Del pianista Jack D'Amico potete avere riscontri in questo sito grazie a due mie recensioni (vedi qui e qui); la rarità del napoletano, oramai da tempo nel giro degli improvvisatori romani, si nutre di fattori tecnici ed espressivi, che tendono a prendere/insinuare una posizione estetica nell'universo fornito da pianisti, musicisti e compositori del novecento. Non si tratta solo di tecniche estensive o di espansioni della capacità sonora, ma di occupare un posto nella gamma complessa dei sentimenti rinvenibili dalla musica. Il pianoforte è strumento che ha già rivelato le sue possibilità armoniche o timbriche, ha un'esposizione secolare in quanto a metodologia di approccio (il suonar dentro gli interni o la percussività delle sue parti esterne) ma D'Amico cerca particolari combinazioni che gli sono care e gli garantiscono una splendida e degna abitazione della sua ricerca; così dicasi per i rhodes, strumenti su cui si pensa di conoscere tutto specie dopo che Miles Davis ha inaugurato un tipo di intervento, ma laconicamente nessuno crede ad ulteriori approcci come quello di D'Amico, che usa una pedaliera che sconfina in una particolare sezione del mistero. L'improvvisazione di D'Amico fa un figurone nel solismo di Awaiting the great collapse, che a qualcuno lascerebbe intendere una sensibilità post-rock, fin dalla copertina dell'album correlato, pubblicato nel 2016 per la greca Plus Timbre; questo progetto, supportato anche da una validissima sorgente video aggiuntiva, di regola affidata a Simone Memè (vedi qui un'esibizione), è pensato per una continua distrazione del pensiero immaginativo, dove D'Amico accoglie tra i suoi comandamenti quello scelsiano di "...non pensare, lasciare pensare coloro che hanno bisogno di pensare...". Il gioco dell'ottagono si apprezza grazie ad una manovra di compenetrazione che usa benissimo gli scampoli stilistici che il novecento ha partorito, lasciandoli intendere ma mai appropriandosene troppo (l'idioma Satie, l'atonalità della scuola viennese, il modern classical, il jazz di Taylor, il Cage elettroacustico). Oltre al pianoforte, che ha una veste continuamente cangiante per via di preparazioni, risonanze ad hoc e battitura degli interni, D'Amico usa le tecniche dell'hyperpiano di Maroney, smistando occasionalmente la voce in un megafono. Quello che si presenta nei 47 minuti della suite è dunque un conglomerato sonoro assolutamente libero, una marea sensazionale a cui è difficile resistere.

http://ettoregarzia.blogspot.gr/2018/05/poche-note-sullimprovvisazione-italiana.html

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